Non si può dire che sia stato un anno noioso, soprattutto
sul fronte politico. Il 2014 è cominciato il 14 febbraio con le dimissioni di
Enrico Letta, noioso ma rassicurante interprete di una politica più vicina al
grigiore degli anni ’70 che ai tumultuosi anni di inizio di questo secolo. A
fargli le scarpe uno scalpitante ragazzotto fiorentino e la sua corte di
bellezze con gli occhi blue che ha avuto il merito, impossibile negarlo, di
aver portato una ventata di freschezza, almeno nell’eloquenza.
Le immagini raccontano meglio di qualunque parola come si è
arrivati al passaggio di testimone e l’incontenibile gioia con cui Letta nipote
consegnava il campanello al giovin Matteo dice tutto.
Uno degli slogan di Renzi era “cambio verso”. In effetti il
verso è cambiato, perché è passato dai sussurri gravi in gessato grigio ai
cinguettii su twitter in camicia bianca e bomber.
A non cambiare verso è stata invece la salute dell’economia
italiana. Il 2013 si era chiuso con un rapporto debito/pil al 132,6% (al lordo
delle misure di sostegno e debiti della PA) e si chiude ben oltre il 134%. Il
tasso di occupazione era al 12,6 e sfonda oggi il 13% con, inoltre, un saldo
netto negativo di nuove imprese.
Non meglio le cose sono andate sul fronte delle riforme. Quella
elettorale, frutto del famigerato e sciagurato patto del Nazareno, è al palo;
non è in sé un male visti i termini antidemocratici e pro-partitici che presentava
la prima bozza dell’Italicum. Il risultato più significativo, l’unico, portato
a casa da Renzi è il Jobs Act. Gli effetti li vedremo l’anno prossimo e sarei
portato ad essere ottimista vista la feroce opposizione di Camusso, Landini e
Fassina ma la sensazione prima è che poco o nulla cambierà perché il lavoro non
si crea con un decreto attuativo o una legge bensì con la crescita economica.
Il pasticcio sull’applicabilità delle nuove norme ai
dipendenti pubblici è lo specchio di un’ambiguità (in alternativa “paraculismo”)
che ha accompagnato sin qui tutta l’attività del governo in carica.
Renzi porta a compimento anche la legge di stabilità più
farlocca che si sia mai vista. Un insieme confuso di promesse e slogan che non
reggono neanche alla lettura delle prime righe. Il colpo di grazia che è stato
dato al risparmio previdenziale, gli aumenti diffusi e malcelati delle imposte,
la strage perpetrata a danno del regime dei minimi, sono foschi presagi di un
2015 ancora molto difficile per contribuenti e risparmiatori. Se dopo 13 mesi
di recessione non ci sarà un’inversione di tendenza, magari aiutata da fattori
esogeni (mi vien da pensare a interventi europei e al calo vigoroso del costo
del petrolio), i nostri destini saranno segnati e il declino sarà una caduta
dolorosa in fondo al burrone.
E’ stato l’anno delle elezioni europee e della crescita dei
partiti antieuropei, rappresentati in Italia da quell’altro gigione che risponde
al nome di Salvini. Prima il no-euro tour con la peggiore delle balle possibili
sullo sfondo, le svalutazioni competitive, e poi la boutade (commentata qui)
della flat tax.
Salvini, che fino a pochi mesi fa cantava “Napoli merda, Napoli
colera” e chiedeva di bloccare l’esodo verso nord di insegnanti precari meridionali
scopre un nuovo meridionalismo e lancia il movimento per il sud Noi con Salvini.
Probabilmente per un po’ gli andrà bene perché anche lui è dotato di buona
eloquenza e nel nome Matteo deve esserci scritto un destino. Meno comprensibile
è vedere come molti italiani abbiano la memoria di un pesce rosso e oggi
inneggino a quello che fino a l’altro ieri consideravano un fannullone.
Si è sgonfiato per contro il Movimento 5 Stelle, schiacciato dalla responsabilità di fare politica e non pura protesta. Era tutto previsto. Alla fine ne rimarrà uno, anzi tre: Grillo, Casaleggio senior e Casaleggio junior perché anche i guru tengono famiglia.
Insomma salutiamo il 2014 senza rimpianti e siamo fiduciosi:
il 2015 non sarà diverso.
Auguri.