sabato 1 novembre 2014

Un drammatico errore di valutazione, i prodromi di una condanna.

Pubblichiamo un interessante intervento di Luigi Desiderato, imprenditore lombardo.

Sono ospite in una trasmissione televisiva locale, invitato a parlare di problemi del lavoro, dell'impresa, la piccola, piccolissima impresa, di quel mondo che attraverso ogni giorno, gravido di sfide tecniche che sono ciò che ho scelto ormai da decenni e che rappresenta il bello del mio lavoro, l’entusiasmo di andare avanti giorno dopo giorno, soluzione dopo soluzione, a suon di fantasia, inventiva, razionalità, esperienza, ma anche - a volte - azzardo di percorrere strade nuove mai intraprese prima, spinto dalla necessità che aguzza l’ingegno. Il mio mestiere è bello, bellissimo, e sono uno dei pochi fortunati al mondo che hanno avuto (e anche si sono creati) la possibilità di fare ciò che piace: per me, inventare cose nuove. A corredo, burocrazia, ostacoli, muri, bastoni tra le ruote, difficoltà, impedimenti che con quanto prima non c’entrano nulla: semplicemente sono il fio da pagare per avere scelto di fare quello che faccio. Un boccone spesso amaro, amarissimo, da dover ingoiare per poter continuare a fare ciò che mi diverte, una specie di pena del contrappasso. E si sta li, finché ce n’è, come cantava Luciano Ligabue.


Gli altri ospiti sono un giornalista, anzi un direttore di giornale, e tre politici: chi a livello nazionale, chi a livello cittadino, chi a livello europeo. Sto molto attento al loro ragionare, cerco di cogliere anche ciò che non è detto, di leggere tra le righe. Alcuni ragionamenti - o forse solo sfumature - talvolta mi appaiono anche (molto) parzialmente condivisibili: ma sostanzialmente a me pare manchi qualcosa, obnubilato com’è da una più o meno larvata ideologia che copre la razionalità e appare come una lente deformante davanti ai loro occhi. Ora, sarà anche facile come sparare sulla Croce Rossa dire che i personaggi politici manchino di buon senso, che i giornalisti scrivano quello che vogliono, ma questa volta la sensazione è di gran lunga peggiore. Non è certo un problema di provenienza ideologica, non certo quello di più o meno lontane mie simpatie (o meglio antipatie) politiche. Ho una concreta sensazione di essere lontano, molto lontano da ciascuno di questi convenuti che, per carità, sono tutte rispettabilissime persone, ma non vedono, non colgono, non capiscono, non sentono, non si accorgono di alcune cose che per me sono evidenti e non da oggi. Si attardano - sì, questa è la parola giusta - si attardano a parlare del passato, pensando che sia il presente o - peggio - il futuro; di ciò che non c’è già più e vorrebbero che fosse perpetuato sine die; di soluzioni che non verranno mai, pensando che siano la panacea di tutti i mali: questa è la classe dirigente che ci siamo scelti, questo è quello che noi, colpevoli elettori disattenti, abbiamo chiamato a dirigere il paese: chi scrive su un giornale e ha solo l’istinto del rimbeccare qualcosa ad un politico simpatizzante di parte avversa; chi sostiene più o meno smaccatamente il governo in carica e denigra quelli precedenti; chi fa il contrario per il gusto del contrario; chi si accanisce con argomentazioni desuete del tutto non costruttive che suonano come i richiami - o i ragli - dei venditori ambulanti.... in tutto questo manca la percezione del mondo che stiamo vivendo, di quello che verrà, di quando verrà e soprattutto di come affrontarlo.

Inutile nasconderlo, il mio pensiero corre istintivamente a mio figlio, ai suoi amici, a quelli della sua generazione: li vedo come vittime segnate da questa cecità, da questa incapacità di formulare dei modelli, di capire una cosa che è estremamente più che evidente di fronte a noi: sollecitato da una domanda del conduttore, provo a sottolineare che il mondo di domani, tra 5 o 10 anni o forse anche meno, di quando la generazione di mio figlio vi si affaccerà, sarà un mondo dove la competenza, la conoscenza e la velocità di reazione messe assieme saranno l’unica chiave di lettura con la quale riuscire a stare al mondo. Conoscenza e competenza che dovrà essere acquisita sui banchi di scuola ma non solo lì. Chi non lo intravede, chi non lo capisce oggi, chi non coglie il drammatico errore che non solo sta compiendo, ma che la conseguenza di questa cecità sarà una condanna definitiva e senza remissione delle generazioni future di questo paese, è totalmente inadeguato ad essere classe dirigente: attardarsi a comprendere cos’è il mondo ben oltre la piastrella sulla quale ci si ostina a rinchiuderlo è colpevole, è sbagliato, è fuorviante, è forse anche criminale. Restando così le cose, le nuove generazioni non potranno che rendersene conto quando ormai sarà troppo tardi, quando avranno in mano delle inutili chiavi buone per aprire porte ormai consegnate all’oblio.

Le "baruffe chiozzotte" di oggi suonano come un colossale errore di sottovalutazione, di comprensione, di interpretazione, suonano come la vedetta che osserva la poppa della nave e l’acqua passata che si allontana, suonano come i prodromi di una condanna: i condannati sono i ns. figli ma come trovare la strada per invertire la marcia, impotenti possessori di un solo voto che si perde nell’affollato consesso di chi punta alla luna e vede solo il dito?

A quella condanna occorre reagire: non so come, ma so che occorre reagire.

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