mercoledì 17 dicembre 2014

Un pensiero sociale? (prima parte)

Poi mi dicono che mi arrabbio facilmente.
Non ho una età che già mi permette di definirmi saggio, ma un po’ di cose le ho viste. Mi vengono in mente sprazzi di memoria della mia adolescenza che rappresentano il seme di come sia oggi a livello sociale l’Italia.

Al liceo si scioperava perché il Giappone uccideva le balene e nel frattempo in piazza Tienanmen passavano i carri armati. I ragazzi non sapevano e seguivano l’onda, con la buona scusa di saltare 5 ore e magari un’interrogazione. In classe si parlava di politica e ripensandoci mi viene un po’ la pelle d’oca. Eravamo giovani e i discorsi non erano particolarmente elevati: ci si basava su cosa votava papà, sulle tradizioni di famiglia. Ma c’erano anche i ribelli, i frequentatori di centri sociali, i lettori – dichiaratamente di sinistra – di Oriana Fallaci. Cochise (o forse più semplicemente Cocis) era un derelitto umano che a 18 anni già si trascinava con il cervello bruciato da chissà quali stupefacenti. Eppure guidò una occupazione e tenne in scacco il mio liceo per un mese. I professori annuivano la mattina davanti al picchetto mentre la palestra era piena di preservativi in mezzo a sacchi a pelo puzzolenti di umanità.

I professori. Io ho avuto qualche bravo professore al liceo. Qualche. Ma ne ho avuti molti che oltre a spiegare, interrogare e dare voti, impartivano lezioni di politica. Storico fu il giorno in cui morì Almirante: un compagno (magari allora si sarebbe offeso se l’avessi chiamato così) appese un poster con la foto del leader del MSI. Fu una provocazione bella e buona, ma sortì effetti fantozziani. Il professore di latino e italiano si rifiutò di entrare in classe, mentre altri “compagni” tentavano di stracciare quel poster, ben protetto dai pochi dichiarati ultras della curva nord del Brescia. Finì a tarallucci e vino, ovviamente.

Ma la pressione di opinione politica era forte e costante. Io, giovane poco incline alla politica, ne fui trascinato a forza nel mezzo. Portavo un piccolo bracciale di cuoio borchiato, simbolo misero e trovato chissà dove (anche sparito chissà dove) della mia ribellione adolescenziale. Ricordo che un professore un giorno passando tra i banchi puntò il dito al mio eroico emblema: “Sei un fascista? Queste cose le portano i fascisti!”. Non ebbi neanche il tempo di rispondere. Rimasi a bocca aperta, inebetito, perché non capivo quale fosse il nesso e quale strano pensiero poteva aver fatto fare quel salto logico al professore.

La politica era ovunque, ma da buoni adolescenti non capivano nulla e ci facevamo guidare inconsciamente da ragionamenti che suonavano politici perché contenevano nomi di ideologie o di partiti, ma che in realtà erano forzature sociali, di pensiero. Porti le Timberland? Sei fascista. Hai il bomber? Sei fascista. Hai un bracciale di cuoio borchiato? Sei fascista (?).

La cosa era presente a tutti i livelli e chi ha la mia età non può non ricordare a quale genere di bombardamento siamo stati sottoposti.

A 18 anni circa votai per la prima volta e votai il Partito dei Verdi (credo si chiamasse così). Non sapevo che pesci pigliare, ero un piccolo, misero ribelle e non volevo votare i “partiti di papà” (a onor del vero mio padre credo abbia votato di tutto). I Verdi erano un partito di pensiero ecologista e l’ecologia non fa mai male (ora so che mi sbagliavo a pensarlo, ma questa è un’altra storia). La mattina del lunedì ci fu chiesto, uno ad uno, cosa avevamo votato: ricordo ancora la smorfia di leggera disapprovazione del professore interrogante alla mia risposta.

Il parlare di politica in classe, con i professori, era fatto con leggera ironia, spensieratamente, quasi per gioco. Ma poi nelle lezioni, le sottolineature e le forzature le ho solamente realizzate da adulto: saltare D’Annunzio perché era un basso invasato che le pallottole le evitava proprio perché basso (non è mia, assicuro). I Promessi Sposi? Ah! Un bel romanzo che diventa interessante proprio quando finisce (vi immaginate Renzo e Lucia raccontati mentre litigano sulla bolletta del gas?).

Tutto questo a mio avviso ha creato una generazione strana. La mia generazione (definita pomposamente Generazione X) è rimasta schiacciata tra le Brigate Rosse negli anni settanta, gli attentati dei primi ottanta, una costante propaganda politico-sociale nelle scuole, gli scandali di mani pulite più avanti. Guardando ai nostri genitori, spesso la reazione che si ottiene a domande di tipo politico è semplicemente un “Non cambierà nulla. La politica è sporca, piena di ladri e basta”. Se ci si definisce interessati a cambiare questo andazzo, subito si viene etichettati come il nuovo-furbetto-che-ha-capito-dove-ci-sono-soldi-da-rubare. “No, ma guarda che ho conosciuto brave persone. Si può provare a cambiare qualcosa!”. Risposta: “Sì,sì, bravo! Quand'è che hai conosciuto Babbo natale?”.

Le generazioni successive? Credo peggio. Non sono un sociologo (e Dio me ne scampi – non ho mai sopportato la loro fuffa) e non ho ancora figli in età adolescenziale. Ma da quello che si legge e vede, le nuove generazioni sono ancor più in un limbo tra rabbia e rassegnazione.

Allora io mi arrabbio, dicevo all'inizio. E mi chiedo come mai la nostra società abbia accettato di assopirsi e lasciar andare tutto. Cambiare per non cambiare. Smettere di indignarsi e di arrabbiarsi. Insistere nel votare il partito che il proprio nonno votò la prima volta nel dopoguerra.
Abbiamo perso il senso civico, sociale, politico. Accettiamo la furberia, il collega che bara al lavoro, il veicolo che passa con il rosso. Non ci fermiamo alle strisce pedonali se c’è un passante. E chi lo fa, riceve un cenno di ringraziamento dal pedone (questa è una cosa che mi fa veramente imbestialire: è un suo diritto, accidenti!). Abbiamo rinunciato ad essere onesti cittadini con un cervello pensante, perché abbiamo costantemente la scusa che a Roma così non sono (se lo fanno loro siamo legittimati a farlo anche noi). Se siamo lavoratori autonomi e paghiamo tutte le tasse, siamo guardati con sospetto. Se proviamo ad avere un comportamento da bravi padri di famiglia (come si diceva una volta), siamo spacciati agli occhi del vicino.

Dobbiamo cambiare questo pensiero sottostante. Dobbiamo farlo per noi stessi. Altrimenti non ci sarà futuro per i nostri figli.

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