mercoledì 24 dicembre 2014

Un pensiero sociale? (quinta parte)

Il lavoro rende liberi? Il lavoro nobilita l'uomo? Senza lavoro non c'è dignità?
L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro?

Questa quinta parte de "Un pensiero sociale?" è la quintessenza del discorso. Forse.

Come rispondereste alle domande iniziali? Io con tre "no". Lo dico subito. Ho imparato con il tempo che lavorare dovrebbe divertire (parte positiva) e che si lavora per vivere (parte negativa). Non si vive per lavorare!
Il lavoro dovrebbe dare soddisfazioni sotto ogni punto di vista e dovrebbe porre obiettivi nobili nella nostra quotidianità, visto che comprende in termini di tempo una decisamente cospicua parte della nostra vita.

Oggi il lavoro è tutto fuorché quanto vorremmo: non ci da soddisfazioni economiche e non ci diverte e soddisfa. Sono generalizzazioni anche in questo caso, ma credo che per chi ha la fortuna di avere un lavoro, la mia analisi non si discosti molto dalla realtà. Mediamente. Non che in passato fosse tutto rose e fiori, sia chiaro, ma se proviamo a chiedere ai nostri genitori e proviamo un minimo a tuffarci e capire profondamente il loro status sociale quand'erano giovani, ci accorgiamo che - ommioddio lo sto per dire! - si stava meglio quando si stava peggio. Ok, l'ho detto!



Ma cosa ha portato l'Italia in questo pessimo stato? Secondo l'ISTAT "a ottobre 2014 il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%". Non male è?
Il resto, gli occupati, come vive il proprio lavoro?

Da questo punto di vista mi ritengo un estremista: la sindacalizzazione estrema è la ragione per cui ci troviamo in questa situazione. Fin dalle origini (trade unions in Inghilterra), il sindacato aveva una funzione sociale non indifferente. In Italia - e non voglio ripercorrere la storia dei sindacati dalle origine, attraverso il ventennio, fino ai giorni nostri - i sindacati hanno fatto più danni che altro. Nelle grandi aziende hanno fino a mai bloccato il naturale sviluppo delle stesse, nelle piccole aziende, quando presenti, hanno portato avanti interessi diversi da quelli dei lavoratori. Questo suonerà ad alcuni come un'accusa pesante, ma nella mia umile opinione ed esperienza, tale è stato il contributo dei sindacati al mondo del lavoro italiano. Se nella realtà delle PMI il tanto decantato Statuto dei Lavoratori (che ricordo oggi ha quasi 45 anni) poteva essere equiparato alla carta straccia, nelle grandi imprese era usato come ricatto costante. Gli scioperi, la protezione del lavoratore anche fuori da ogni logica, la burocrazia, i contratti collettivi e quant'altro negli anni sputato dai microfoni sui palchi delle grandi manifestazioni di sindacato, non hanno fatto altro che rallentare e bloccare il lavoro e i lavoratori italiani.
Siamo persino arrivati all'assurdo che dire cose come quelle che ho appena scritto, probabilmente farà saltare sulla sedia alcuni di voi. Ma se dovessi chiedervi se siete iscritti ad un sindacato e, se lo siete, cosa ha mai fatto il sindacato per voi, cosa rispondereste? Quando il sindacato ha davvero protetto i vostri diritti di lavoratore? Quando i sindacati nazionali (i 4 grandi confederati - lasciando perdere i restanti lillipuziani) hanno realmente impresso una spinta all'aumento dell'occupazione in Italia? Quando hanno contribuito alla crescita del paese?

A questo si aggiunge altro e di peggio. Secondo Wikispesa (http://wikispesa.costodellostato.it/Sindacati):
Le fonti di finanziamento del sindacato sono molteplici e poco trasparenti. Così come poco trasparenti sono i loro bilanci, dal momento che non esistono i "bilanci consolidati” delle confederazioni.
Alcune di queste fonti possono essere considerate un vero e proprio finanziamento pubblico. Tra queste:
Finanziamento ai patronati (nella maggioranza di derivazione sindacale): 260 milioni dall’INPS, cui si aggiungono milioni dall'INPDAP e 15 milioni dall'INAIL.
Finanziamento ai CAF.
Nota: per chi non lo sapesse Wikispesa è un progetto di Istituto Bruno Leoni. Dateci un'occhiata che merita...

Dicevamo... Detto tutto questo, il sindacato ha senso di esistere come è attualmente concepito?

Sarà che forse serva all'Italia una nuova generazione di sindacalisti? Sarà forse che sia necessaria una vera concertazione e dialogo tra datore di lavoro e lavoratore?
Forse c'è bisogno anche qui di una rivoluzione sociale italiana a tutto tondo. 

La richiesta di protezione ad ogni costo del lavoratore (e la cronaca italiana degli ultimi anni ne è piena) è oramai una cosa d'altri tempi, da minatori dei primi del novecento.
Davvero dovremmo ri-pensare il nostro approccio al lavoro. Come lavoratori (autonomi, dipendenti e statali) e come imprenditori. Lavorare per lo stipendio è sicuramente importante. Ma lo stipendio è diretta conseguenza dello stato economico e patrimoniale dell'azienda in cui si lavora. Se quest'ultima funziona, ha successo e produce ricchezza, tale ricchezza ricadrà direttamente o indirettamente sulla società e sui lavoratori. E' un principio base che nella nostra mentalità appare lontano, malgrado la sua semplicità. Il lavoratore è visualizzato solamente come sfruttato, vessato, fino a mai depravato e stuprato nella sua funzione di semplice "pigiatore di tasti su un macchinario infernale" (riguardarsi Metropolis del grande Fritz Lang se avete occasione). Ma oggi è davvero ancora così? Lo è per gli immigrati? Negli scantinati privi di illuminazione naturale gestiti dai cinesi? Lo è nei call-center dove i giovani vengono sfruttati da imprenditori schiavisti? O lo è anche nelle grandi, medie e piccole imprese italiane?

E soprattutto, cosa fanno i sindacati italiani per migliorare tutto questo?

(continua forse sui lavoratori statali - che ce n'è da scrivere!)

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